Quali sono i capisaldi per la salute del cervello e quali i comportamenti da sconsigliare? La longevità è la meta, ma tutti vorrebbero arrivarci con una mente «sana»: tutte le ricette per farcela.
Chi non vorrebbe un cervello sano a lungo, al riparo da malattie come l’Alzheimer o il Parkinson, magari con una super-memoria?
Non si tratta di una possibilità appannaggio di pochi né serve per forza aver vinto alla lotteria della genetica, tutti abbiamo a disposizione tanti mezzi anche relativamente semplici per mantenere in salute il cervello più a lungo possibile, a partire dalle sane abitudini.
Pensiamo all’esercizio fisico: una ricerca su oltre 10 mila persone pubblicata di recente sul Journal of Alzheimer’s Disease ha dimostrato che chi ha l’abitudine di camminare molto o pratica regolarmente sport ha un volume cerebrale maggiore in aree critiche per la memoria, come l’ippocampo, e connessioni più numerose fra le diverse aree del cervello.
Nuovi neuroni crescono con una vita attiva
Le cellule cerebrali, i neuroni, iniziano a diminuire di numero fra i 20 e i 30 anni e ogni giorno ne perdiamo circa 100mila ma fare attività fisica, soprattutto correre o camminare, stimola lo sviluppo compensatorio di nuovi neuroni ogni giorno e può contrastare perfino la comparsa di demenza: si stima che circa un terzo dei casi di malattia di Alzheimer sia direttamente connesso al troppo tempo passato seduti, perciò oltre all’attività fisica regolare è bene avere uno stile di vita attivo in generale, dimenticando ascensori e scale mobili.
Come agisce lo sport
Nel cervello degli over 65 attivi si trova una quantità di sostanza grigia e bianca paragonabile a quella di persone più giovani e molto maggiore rispetto ai coetanei sedentari. Il movimento, però, è solo una delle tante cose che possiamo fare per avere un cervello «scattante».
In particolare, camminare è un toccasana per il cervello: i classici trenta minuti quotidiani a passo svelto aumentano la produzione di fattori di crescita delle cellule cerebrali, inoltre la passeggiata favorisce la creatività, perché i pensieri vagano senza meta e sono più probabili nuove associazioni di idee. Aumenta poi la produzione di endorfine positive per il benessere mentale, diminuiscono ansia e stress: bastano 10 minuti a piedi per avere lo stesso effetto sul buonumore di un allenamento di 45 minuti in palestra e se la passeggiata è nel verde il benessere è garantito, perché si riduce l’attività cerebrale in aree associate alle emozioni negative e diminuisce la «ruminazione», l’atteggiamento per cui i pensieri girano in circolo su elementi negativi di sé e della propria vita. Camminando, inoltre, grazie all’impatto con il terreno, si hanno «onde» di pressione che aumentano il flusso di sangue al cervello, un po’ meno rispetto alla corsa ma di più in confronto ad attività per cui non si mettono i piedi a terra come nuoto o ciclismo, con un effetto protettivo diretto sulla memoria e sul deterioramento cognitivo legato all’età.
I capisaldi dell’alimentazione
Uno stile di vita che aiuti il cervello a restare in forma significa innanzitutto non fumare, non esagerare con l’alcol e seguire una dieta sana: quella mediterranea è la migliore perché assicura un buon apporto di alimenti come frutta secca e olio d’oliva per i grassi buoni, antiossidanti da frutta e verdura, vitamina B12 da carne, pesce e latticini.
L’aminoacido asparagina contenuto in carne, uova e latticini è indispensabile per lo sviluppo del cervello; sono noti inoltre, gli effetti degli antiossidanti di frutta e verdura, che proteggono i neuroni dai radicali liberi, e degli acidi grassi polinsaturi dell’olio, della frutta secca e del pesce.
I vegetali nutrono i batteri «buoni» dell’intestino, che influenzano umore e capacità cognitive: la serotonina, il «neurotrasmettitore della felicità», è prodotta per il 90% dai batteri intestinali e sono sempre più numerosi gli studi che correlano una flora intestinale «cattiva» a malattie con demenze o Parkinson.
Il dialogo fra intestino e cervello è indispensabile per il benessere della mente perché, quando nella pancia qualcosa non va, il cervello ne risente: anche per questo la dieta è fondamentale per le prestazioni mentali.
Ricordando che pure l’acqua è un alimento: il cervello è costituito per circa l’80% da acqua e se è «a secco» è meno capace di concentrazione e attenzione, è affaticato, perfino più rallentato nell’eseguire compiti semplici. Va ancora peggio con prestazioni più complesse: i voti a scuola peggiorano se non si beve abbastanza e mettersi al volante disidratati è come farlo in stato di ebbrezza, tanto che gli errori alla guida raddoppiano.
«Non c’è però alimento che faccia da solo la differenza, né un nutriente “speciale” che regali un cervello brillante: conta la dieta nel suo insieme e non esistono cibi miracolosi per la mente», dice Alessandro Padovani, presidente della Società Italiana di Neurologia (Sin).
W i carboidrati (non tutti)
Discorso a parte per i carboidrati: sono benzina per i neuroni, perciò indispensabili e le diete low carb possono incidere in negativo sulle prestazioni cognitive. Devono però essere carboidrati complessi da fonti come i cereali integrali, perché gli zuccheri semplici di dolci, biscotti e simili non sono una buona scelta: «Tanti credono che lo zucchero serva a essere più attenti e a scacciare la fatica e scelgono un biscotto come spezza-fame per essere più concentrati. Ma è il contrario: dopo un’ora si è più stanchi e meno vigili», osserva l’esperto.
Esagerare con lo zucchero per di più col tempo può alterare la sensibilità all’insulina, che regola l’utilizzo del glucosio nei tessuti e nel cervello agisce come neuromodulatore: ciò sembra facilitare perfino la deposizione di placche di beta-amiloide, proteina correlata all’Alzheimer.
Inoltre, i chili in eccesso provocati da eccesso nutritivo fanno male anche al cervello: riducono infatti il flusso sanguigno cerebrale, soprattutto in regioni chiave per le attività cognitive come i lobi temporali e parietali, che contribuiscono alle abilità di linguaggio, calcolo, orientamento spaziale ed elaborazione delle informazioni sensoriali; l’ippocampo, importante per la memoria; il giro cingolato posteriore, coinvolto nella memoria e nell’orientamento spazio-visivo. Inoltre, l’eccesso di grasso incrementa l’infiammazione e si riducono le dimensioni di aree cerebrali connesse alla memoria: essere sovrappeso fra i 20 e i 50 anni per esempio aumenta la probabilità di demenza di circa il doppio, essere obesi di ben due volte e mezzo.
È un guaio pure avere la pressione alta, che modifica struttura e funzionalità dei vasi sanguigni cerebrali provocando micro-danni ripetuti ai neuroni in aree critiche per le funzioni cognitive favorendo le demenze, e il colesterolo in eccesso, perché arterie «pulite» sono necessarie per avere un buon afflusso di sangue al cervello.
La vita sociale e l’allegria
La solitudine è un «veleno» per la salute del cervello, che ha bisogno di contatti umani proprio come abbiamo necessità di mangiare per vivere: siamo «disegnati» per desiderare e cercare conforto negli altri, così la solitudine minaccia il benessere mentale e le capacità cognitive in vario modo.
«Per esempio, si stima che almeno 1 caso di depressione su 5 sia direttamente provocato proprio dall’isolamento sociale», osserva Alessandro Padovani, presidente Sin. «Una rete di relazioni articolata, con buoni punti di riferimento per i momenti difficili, protegge invece dal declino cognitivo e dalla depressione, riducendo il rilascio di ormoni dello stress deleteri per il cervello, come il cortisolo, e migliorando capacità che servono per stare con gli altri come linguaggio, memoria, attenzione».
Così coltivare rapporti extra-ufficio, per esempio, è un investimento sul benessere mentale di quando andremo in pensione: con l’andare degli anni infatti la solitudine diventa sempre più pesante da sopportare, tanto che negli over 65 si associa a una riduzione della durata della vita simile a quella provocata dal fumare 15 sigarette al giorno e superiore a quella associata all’obesità.
Pensa positivo, ridi spesso, sii generoso e il cervello ti ringrazierà: questi tre atteggiamenti sono altrettanti elisir di salute per la materia grigia. Essere ottimisti migliora l’umore, riduce lo stress e la produzione degli ormoni correlati. Chi guarda alle cose in modo positivo ha più risorse per adattarsi agli eventi stressanti, è più flessibile e capace di affrontare le avversità senza soccombere: non resta perciò schiacciato dalle circostanze difficili, sente di avere sempre il controllo perché è più capace di focalizzarsi su quel che conta davvero, cercando le modalità adeguate per gestire i problemi senza ignorarli. L’ottimista cerca soluzioni e ne immagina di più grazie a una maggior capacità di risoluzione dei problemi e di pensiero strategico, inoltre controlla meglio le emozioni negative che potrebbero ostacolarlo: agisce a livello razionale, riconsiderando le situazioni come sfide anziché come minacce, e comportamentale, ponendosi scopi nel lungo periodo a cui puntare senza restare in balia di quel che accade giorno per giorno e che potrebbe compromettere l’umore. L’approccio ottimista alla vita comporta un maggior benessere generale e cerebrale, riflettendosi anche in una funzione cognitiva migliore.
Come aggiunge Alessandro Padovani, presidente Sin: «Ridere è quasi una medicina: migliora l’umore grazie alla liberazione di endorfine, serotonina e dopamina e questo, oltre a contribuire alla sensazione di gratificazione, aiuta il cervello a lavorare meglio con effetti positivi, per esempio, su memoria e capacità di apprendimento. Lo stesso succede se si è generosi, oltre che ottimisti: quando spendiamo soldi per gli altri anziché per noi aumenta l’attività di zone cerebrali connesse all’empatia e alla felicità, in più si attivano le aree della gratificazione e aumenta la dopamina, la molecola del piacere, in modo simile a quanto accade quando ci occupiamo dei figli». Siamo più felici e il cervello ringrazia, ma il benessere da donazione in realtà è un «trucco» dell’evoluzione: occuparci degli altri serve infatti a rafforzare i legami sociali con la comunità e ci ha avvantaggiato come specie. Le connessioni cerebrali coinvolte nel benessere da generosità si sviluppano però nel tempo, ecco perché bambini e ragazzi non sono mai troppo entusiasti di fare anziché ricevere regali: merita comunque «allenarli» a dare, fin da piccoli, visti i vantaggi che potranno trarne.
La natura
Anche la natura è una buona compagnia: bastano 20 minuti nel verde all’aria aperta per una riduzione drastica e significativa dell’ormone dello stress. Inoltre le performance cognitive migliorano perché mentre gli spazi urbani ci distraggono con mille stimoli che comportano affaticamento emotivo, il contatto con la natura aiuta a staccare per un po’ per poi tornare ai nostri impegni più concentrati di prima. «L’organismo, lontano dal caos urbano, disinnescando automaticamente la modalità “lotta o fuggi” riserva più energie ad altro, compresa l’attività cerebrale», aggiunge il neurologo. «L’effetto è evidente anche sulle performance scolastiche: gli spazi verdi vicino alle scuole aiutano l’apprendimento e migliorano la memoria e lo sviluppo cognitivo dei ragazzi, che ottengono voti migliori». Il verde poi riduce l’inquinamento atmosferico, che soffoca i polmoni e pure il cervello: particolato e inquinanti da traffico hanno un impatto negativo sullo sviluppo cognitivo dei bambini e sugli adulti, inoltre sembrano avere effetti tossici diretti sulle cellule cerebrali. Così per esempio i livelli di esposizione allo smog sembrano essere correlati alle capacità in test matematici e di linguaggio e più si vive in aree inquinate, più con l’andare degli anni peggiorano le abilità cognitive necessarie a svolgere i test.
Il sonno
Chi dorme piglia pesci: garantirsi un buon sonno è la prima regola da rispettare, per avere un cervello in buona salute. Quando si dorme, le connessioni cerebrali si riorganizzano: durante il giorno i neuroni elaborando gli stimoli ambientali rafforzano le connessioni cerebrali, mentre il sonno è come un bravo giardiniere che ne sfoltisce la crescita, dando forma ai ricordi che serve mantenere ed eliminando ciò che non è utile per lasciare spazio alle successive esperienze. Come specifica Alessandro Padovani, presidente Sin, «dormire bene è indispensabile per il buon funzionamento del cervello al punto che dopo una notte poco ristoratrice le prestazioni sono meno brillanti, si hanno problemi di concentrazione e chi ha disturbi del sonno con l’invecchiamento va incontro più facilmente a disturbi cognitivi. In caso di difficoltà però occorre rivolgersi a uno specialista: farmaci che inducono il sonno come le benzodiazepine, usati da molti per il fai da te anti-insonnia, possono peggiorare e compromettere proprio le prestazioni cognitive».
Inoltre, dormire poco può favorire deficit cognitivi, specie se il debito di sonno si ha fra i 50 e i 60 anni: stando a dati raccolti su oltre 8mila persone da ricercatori dell’University College di Londra, riposare meno di 6 ore per notte in questa fase della vita può aumentare fino al 30% la probabilità di andare incontro a disturbi cognitivi e demenza nei 30 anni successivi.
«Dormire a sufficienza è necessario anche perché funzioni a dovere il sistema glinfatico, lo “spazzino” del cervello che rimuove i prodotti di scarto e i detriti fra cui la proteina beta-amiloide, una sostanza del metabolismo cerebrale coinvolta nello sviluppo dell’Alzheimer», conclude Padovani.
L’importanza dell’udito
Dopo gli «anta», infine, è meglio controllare l’udito: dalla mezza età in poi, essere «duri d’orecchio» è uno degli elementi che incidono di più sul rischio di demenza e secondo le stime circa l’8 per cento dei casi sarebbe direttamente provocato dall’ipoacusia.
Non sentire più bene triplica la probabilità di deficit cognitivi perché accresce l’isolamento sociale, rischioso specialmente negli anziani dove la solitudine innesca meccanismi biologici pericolosi riducendo la qualità della vita, aumentando il rischio di depressione e pure la produzione di molecole pro-infiammatorie che possono compromettere l’attività cerebrale. La perdita dell’udito ha poi effetti diretti sul cervello, perché provoca una riduzione del volume della corteccia cerebrale uditiva e una diminuzione delle diramazioni dei neuroni, che quindi hanno più difficoltà a comunicare fra loro e a svolgere le loro funzioni. La ridotta stimolazione delle aree attivate dai suoni poi favorisce l’impoverimento cognitivo, in più un cervello che non sente bene si affatica e ha meno risorse disponibili per altri compiti che non siano aguzzare le orecchie.