Le persone intolleranti a qualche cibo sono sempre di più, ma faticano a capire quale alimento dia problemi, con il rischio di escluderne troppi. Le differenze tra allergia, intolleranza e sensibilità, i sintomi, i test fasulli e come non finire nell’imbuto nutrizionale.
Moltissime persone hanno reazioni fisiche poco gradevoli nei confronti di alcuni cibi: non solo i celiaci, ma anche gli intolleranti, gli allergici, i «sensibili». La galassia delle «intolleranze alimentari» è varia e differenziata ed è statisticamente dimostrato che questi problemi sono in crescita.
Spesso ci si affida al fai-da-te per diagnosticare il disturbo, ignorando la differenza tra allergia e intolleranza, escludendo intere categorie di cibi, o affidandosi a test che in realtà non sono validi. Per rispondere alle domande più comuni e indicare il percorso corretto per arrivare a capire cosa ci dà fastidio è uscito, per i tipi della Sonzogno, il libro di Enzo Spisni «Siamo tutti intolleranti». Spisni dirige il laboratorio di Fisiologia traslazionale e Nutrizione presso l’Università di Bologna, dove è Professore Associato: all’interno della collana «Scienze per la vita», ideata e diretta da Eliana Liotta, ha deciso di scrivere a proposito di questo tema perché riguarda sempre più persone.
Primo passo: gli allergici
Per affrontare l’argomento sterminato andiamo per gradi e, mettendoci nei panni di un lettore che abbia problemi e reazioni a diversi alimenti, abbiamo chiesto a Spisni un primo consiglio orientativo: da chi andare in caso di malessere?
«Ci sono due tipi di sintomatologie dopo mangiato che possono configurarsi come segnali di allarme — risponde lo specialista —: una lieve sintomatologia gastrointestinale (mal di pancia, gonfiore o diarrea), o una sintomatologia molto più forte che comprende vomito o problemi cutanei (gonfiori, rossori). Se la sintomatologia è forte bisogna andare da un allergologo, altrimenti da un gastroenterologo».
Dividiamo i due ambiti: quali accertamenti mi proporrà l’allergologo?
«Di norma farà eseguire una serie di esami, di cui il principale è l’analisi delle immunoglobuline di tipo E (quindi un’analisi del sangue) per identificare se ci sono degli anticorpi contro qualche cibo particolare – spiega l’esperto —. Una volta capito quale sia l’alimento che dà fastidio (per esempio i latticini, le pesche, i crostacei), è spesso possibile scoprire anche quale sia la singola proteina che viene riconosciuta dal mio sistema immunitario».
A che cosa servono queste analisi?
«Sono fondamentali per capire, da allergici, cosa si rischia: ci sono alcune proteine che vengono denaturate con la cottura o che, passando dallo stomaco, vengono “rotte”. Se è questo il mio caso, sarò soggetto solo a sintomatologie non gravi. Invece esistono proteine molto stabili, sia dal punto di vista gastrico che dal punto di vista termico: se il mio organismo è allergico a una di queste, sarò un soggetto a rischio di reazioni molto forti, fino allo shock anafilattico (che mette a rischio la vita). Dovrò evitare totalmente l’alimento e anche le contaminazioni da alimento».
Esistono terapie contro le allergie?
«I farmaci intervengono soltanto dopo l’esposizione all’alimento cui si è allergici e servono per evitare di avere conseguenze gravi. Quello che si può fare come terapia è intraprendere un percorso di “desensibilizzazione” che, tramite la somministrazione di dosi minime di allergene (sotto controllo medico in ambiente protetto), prova a riabituare un pochino l’organismo a reagire meno violentemente. È un percorso che non funziona in tutti i casi e non è privo di effetti collaterali. I pochi studi fatti indicano una discreta riuscita, diciamo del 50%, comunque è un percorso che va concordato con l’allergologo ed è indicato soprattutto nei soggetti che sono pesantemente allergici. Si fa una sola volta nella vita e se funziona si rischia di meno, soprattutto nel caso delle contaminazioni che sono difficili da tenere sotto controllo da parte di tutti i soggetti: ristoranti e produttori di alimenti».
Secondo passo: gli intolleranti e i sensibili
Torniamo al nostro lettore alle prese con i disturbi post pasto: se i sintomi sono lievi probabilmente non avremo un’allergia, ma un’intolleranza o una sensibilità. Qual è la differenza?
«L’intolleranza non coinvolge il sistema immunitario, è un problema strettamente digestivo che dà una sintomatologia tipicamente di pancia. La sensibilità, invece, coinvolge il sistema immunitario e può dare luogo a una sintomatologia “extra intestinale” che può comprendere stanchezza cronica, fatica, mal di testa».
A questo punto lo specialista di riferimento quale diventa e quali sono gli esami che potremmo fare?
«Ci si reca dal gastroenterologo, anche perché molte di queste problematiche dal punto di vista della sintomatologia si sovrappongono a malattie funzionali dell’intestino, come per esempio la cosiddetta sindrome dell’intestino irritabile o colon irritabile, per cui è necessario escluderle. Una volta escluso che io abbia qualche problematica gastrointestinale, lo specialista mi indirizzerà verso i “test delle intolleranze” che si fanno però soltanto per alcune categorie di alimenti: per gli zuccheri (lattosio, saccarosio, fruttosio). Si chiamano “test del respiro” e misurano la presenza di idrogeno che si forma in seguito alla fermentazione nell’intestino».
Cosa deve fare chi risulta intollerante, ad esempio al lattosio?
«Non certo escludere l’alimento in questione perché le intolleranze o sensibilità sono quantitative. Di solito i disturbi si evidenziano con quantità consistenti di alimento. Se sono intollerante al lattosio (geneticamente lo è la metà della popolazione italiana, anche se non tutti hanno sintomi) vuol dire che la mattina non posso bere la tazzona di latte, ma se macchio il caffè non succede niente. Dovrò abituarmi riducendo la quantità di latte fino a raggiungere un valore che mi permetta di tollerarlo e far sparire la sintomatologia».
Se i test non «funzionano»
Abbiamo scritto che i test validi identificano l’intolleranza agli zuccheri. Se non sono in quella casistica, ma i miei problemi intestinali continuano?
«Spesso succede che le persone entrino nella giungla dei test non validati. Riguardano tutto: si fanno pannelli da più di 100 alimenti diversi e nessuno di questi ha una validità scientifica, ma tutti hanno un certo numero di falsi positivi. Facilmente risulterò intollerante o sensibile a decine di alimenti ed è qui che si innesta il pericolo della reazione che io chiamo “l’imbuto nutrizionale”, il motivo per cui ho scritto questo libro».
Di cosa si tratta?
«Della reazione che hanno molte persone quando non trovano cosa provoca loro i fastidi. La prima tentazione è quella di iniziare a escludere tutti i cibi che i test non validati hanno segnalato. Ci si infila in una dieta ristretta e sbagliata, mangiando sempre meno tipologie di cibo. Dato che questo non basta e si sta ancora male, si fanno ulteriori test (sempre non validati) che troveranno altre intolleranze e così via, fino ad arrivare a mangiare tre cose o poco più. Questa scelta alimentare così limitata davvero disabituerà l’intestino a tutto il resto e quindi le persone si convinceranno di essere davvero intolleranti a tutto o quasi. In realtà è perché sono entrati nell’imbuto nutrizionale».
Un metodo per scoprire l’intolleranza
Cosa si può fare se ho dei fastidi e non ne trovo la causa?
«Tentare (seguito possibilmente da un nutrizionista) una “dieta di esclusione” fatta in un certo modo che serve a identificare qual è l’alimento o il gruppettino di alimenti che mi dà i maggiori problemi. Si parte con l’esclusione del cibo “indiziato” per tre settimane. Se la sintomatologia migliora o scompare del tutto, si reintroduce in modo brusco il cibo e si nota se la sintomatologia riappare esattamente come prima. Con prove empiriche, senza fidarmi dei test, sarò in grado di identificare quali sono gli alimenti che mi danno problemi. A questo punto si escluderà quel determinato cibo per 60-90 giorni e poi si potrà procedere a riabituare l’intestino, cercando a piccole dosi di raggiungere una soglia di tolleranza (quantitativa)».
Intolleranze in aumento, perché?
Molte persone si diagnosticano allergie e intolleranze da soli, ma gli strumenti per capire davvero di cosa si soffre ci sono. Gli errori in cui possiamo incorrere nel tentativo di identificare i cibi che ci fanno male, però, suggeriscono anche una considerazione, che è quella da cui è partita l’idea del libro: siamo diventati tutti intolleranti?
«Tutti ovviamente no, ma molti sì: stiamo andando verso un aumento molto forte delle allergie e delle intolleranze. È cambiato l’ambiente in cui viviamo. Ci sono studi che dimostrano che già il fatto di nascere in città ti porta ad avere un microbiota intestinale non ottimale. E questo ricade sul sistema immunitario. A questo sommiamo il fatto che mangiamo alimenti tendenzialmente sterili e invece avremmo bisogno di contatto con i batteri buoni dell’ambiente per costruirci un microbiota intestinale robusto; in più, gli alimenti industriali hanno spesso additivi che sappiamo dare fastidio al sistema immunitario e al sistema gastrointestinale, come per esempio gli edulcoranti (gli zuccheri a caloria zero). Anche gli inquinanti ambientali fanno la loro parte, per esempio le microplastiche. Questo è l’ambiente in cui siamo immersi che tende a indebolire l’intestino e la barriera tra intestino e il resto del corpo. Finisce che passano verso il sistema immunitario molte proteine che non dovrebbero esserci e questo scatena la risposta. È il prezzo che stiamo pagando per questo modello di sviluppo».
Quali scelte alimentari può fare il singolo individuo, visto che non è facile incidere sull’ambiente in cui viviamo?
«Sicuramente i prodotti biologici riducono di molto l’esposizione ai pesticidi, ma non quella alle microplastiche e agli additivi. Al supermercato stiamo attenti a non comperare alimenti cucinati e pronti, a scegliere i cibi grezzi, evitando quelli con liste di ingredienti lunghissime. Sono scelte che vanno fatte anche da parte dei genitori per i loro figli, visto che la solidità del sistema immunitario si costruisce nei primi anni di vita».