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Passo avanti importante per i tumori dell’endometrio ancora difficili da curare

Se diagnosticato e curato in stadio iniziale, la prognosi del tumore dell’endometrio è buona: circa il 90-95% delle pazienti è viva a 5 anni dalla diagnosi. Da anni, però, i ricercatori lavorano per trovare nuove cure efficaci per le donne con una neoplasia in stadio avanzato e per quelle che hanno una ricaduta dopo la prima linea di terapia. Buone notizie in questa direzione arrivano da uno studio presentato durante il congresso annuale sui tumori femminili, organizzato dalla Society of Gynecologic Oncology americana a Tampa, in Florida, e pubblicato contemporaneamente sulla rivista scientifica New England Journal of Medicine : l’immunoterapia, associata alla chemioterapia standard, riduce in modo importante il rischio di progressione della neoplasia e di morte delle pazienti.

 

La nuova sperimentazione

Gli esiti della sperimentazione di fase tre (l’ultima, prima dell’autorizzazione ufficiale di un farmaco) RUBY indicano, infatti, che con l’aggiunta del farmaco immunoterapico dostarlimab alla chemio (a base di carbonplatino e paclitaxel), rispetto all’attuale trattamento standard a base di sola chemioterapia, migliora significativamente la sopravvivenza libera da malattia nelle donne  con un carcinoma dell’endometrio avanzato già alla diagnosi o ricorrente e, in particolare, in quelle con una specifica condizione genetica nota come «instabilità dei microsatelliti». Nello specifico lo studio ha confrontato l’impiego di dostarlimab più chemioterapia standard seguita da dostarlimab, rispetto a chemioterapia più placebo seguita da placebo. I risultati mostrano una riduzione del 72% del rischio di progressione della malattia e una diminuzione del 36% di quello di morte. «I risultati, soprattutto in considerazione delle istologie difficili da trattare incluse nello studio (cioè quelle con instabilità dei microsatelliti), dimostrano che questo può essere il nuovo standard di trattamento: l’aggiunta dell’immunoterapia alla chemio» commenta Domenica Lorusso, professore associato di Ostetricia e ginecologia e responsabile della Programmazione ricerca clinica alla Fondazione Irccs Policlinico Universitario Gemelli di Roma.

 

Sintomi da non trascurare

In Italia si registrano circa 10mila nuove diagnosi ogni anno di tumore dell’endometrio, il quarto tumore più frequente nella popolazione femminile dopo quelli a seno, colon e polmone. L’incidenza è maggiore in donne di età menopausale: si presenta soprattutto verso i 55-65 anni (età media 60 anni) e solo nel 20% dei casi prima che sia iniziata la menopausa; è infatti raro prima dei 40 anni. La metrorragia, ovvero il sanguinamento uterino anomalo indipendentemente dal ciclo mestruale o in post-menopausa, è il primo campanello d’allarme: per questo le perdite ematiche, soprattutto in donne in età post-menopausale, dovrebbero essere motivo di indagine celere e approfondita. Perdite vaginali bianco-giallastre (leucoxantorrea), dolore addominale e gonfiore (edema) agli arti inferiori sono invece più caratteristici di una neoplasia in stadio avanzato. «Circa 3mila italiane muoiono ogni anno per questa neoplasia che, essendo considerata a buona prognosi, non ha visto importanti investimenti nella ricerca e nelle cure — continua Lorusso —. La conseguenza è che oggi è l’unica patologia oncologica con mortalità in aumento. Nell’80% dei casi la diagnosi avviene quando è confinato all’interno dell’utero, ma nella recidiva, in forma avanzata, la mediana di sopravvivenza è a tre anni. Fino a ieri avevamo solo la chemioterapia con carboplatino e taxolo».

 

Chi è più a rischio di ammalarsi

«La grande scommessa dello studio RUBY era che l’immunoterapia potesse potenziare la chemioterapia — aggiunge Giorgio Valabrega, professore associato di Oncologia medica all’Università di Torino e all’Irccs Candiolo e coordinatore per l’Italia del trial —. Il disegno statistico della sperimentazione è complesso, con due obiettivi: dimostrare la sopravvivenza libera da progressione di malattia e quella globale, analizzando prima le pazienti che, per questioni genetiche, avendo un’instabilità dei microsatelliti (dMMR/MSI-H), erano più “pronte” alla terapia, e allargandolo poi a tutte le altre. I risultati sono davvero rilevanti, con esiti a oggi mai visti. Ora ci poniamo la domanda se serva la chemio per tutte, quando serva solo l’immunoterapia, cosa fare nelle pazienti che progrediscono, in quelle che non rispondono alle terapie. Su questi punti ci sono altri studi in corso e ci aspettiamo di poter avere risposte tra un anno e mezzo circa». Obesità, diabete, ipertensione, menopausa tardiva, assunzione di estrogeni non bilanciati da progestinici fanno salire le probabilità d’ammalarsi. «Il rischio è più elevato anche per le donne che assumono tamoxifene, farmaco utilizzato nella terapia del cancro al seno, e in chi ha ricevuto una precedente radioterapia sulla pelvi — conclude Valabrega —. Il motivo che sta alla base dell’aumentato pericolo per queste categorie di persone risiede nell’accresciuta quota di estrogeni che, in tutti questi casi, stimola l’endometrio in modo improprio».

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